MUSICA CLASSICA E ARTE  2008

1909

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B.Bartok - Quartetto n.1
Al pari degli ultimi Quartetti di Beethoven, i sei Quartetti per archi di Béla Bartók possono essere considerati un ciclo unitario, un'espressione fra le più compiute e alte della musica del nostro secolo per quanto riguarda la ricerca linguistica, timbrica e formale. Ma a differenza degli ultimi di Beethoven, che circoscrivono un periodo limitato seppure di fondamentale importanza nella produzione del loro autore (ciò che comunemente va sotto il nome di tardo stile), i Quartetti di Bartók abbracciano quasi l'intera carriera del compositore e ne segnano lo sviluppo lungo il cammino verso la piena, matura realizzazione della sua personalità e individualità, con una pregnanza e densità che hanno pochi riscontri nel panorama della musica contemporanea e non hanno ancora finito di esercitare un sottile, ambiguo fascino d'attualità. Mai come in questi lavori Bartók condensa all'estremo la propria ricerca compositiva, nell'essenzialità della scrittura di quella che fu da sempre considerata la più pura e nobile delle forme strumentali classiche, per rispecchiarvi tutte le ansie e le aspirazioni di un'intima, e sia pur a tratti problematica, necessità creativa.
Tra il primo e l'ultimo dei sei Quartetti corrono trent'anni: dal 1909 al 1939. Sono date significative, giacché esse segnano rispettivamente la svolta-dopo un periodo di crisi e di chiarificazione che si attua proprio con la composizione del Primo Quartetto, e la decisione di abbandonare l'Ungheria per motivi politici e di trasferirsi negli Stati Uniti (il Sesto Quartetto è l'ultima opera scritta da Bartók in patria). Non a caso, in uno scritto pubblicato sulla " Revue Musicale" nel 1921, Zoltàn Kodàly, che di Bartók era stato il punto di riferimento negli anni della crisi (una crisi di identità provocata dal disagio nell'armonizzare la tradizione con le nuove istanze di una musica nazionale e autenticamente popolare), riconosceva nel Primo Quartetto il superamento chiarificatore di un dramma interiormente vissuto: una specie di "ritorno alla vita" di un'anima approdata alia foce del nulla. È noto che Bartók trovò la via d'uscita da questo vicolo cieco ripercorrendo a ritroso la strada che conduceva alle fonti originali della musica popolare contadina non solo ungherese, ma anche slovacca, rumena, balcanica (più tardi addirittura araba); da queste raccolte e dagli studi compiuti su di esse, dapprima con l'aiuto di Kodàly e poi in proprio, Bartók pervenne a una nuova consapevolezza dell'uso di questo materiale nella musica d'arte, che modificò anche la sua visione generale della tradizione romantica e tardoromantica. Il suo mondo artistico si arricchì così di nuovi contenuti, in duplice senso: le strutture modali, melodiche e ritmiche della musica popolare, riprodotte nella realtà concreta e originale della loro natura, si contrapposero alla densità cromatica e alla intensificazione espressiva della musica colta occidentale e del suo complesso linguistico-formale, per cercare poi una integrazione sul piano della modernità. Il ciclo dei Quartetti rappresenta le tappe di questa integrazione: come se Bartók ne distillasse via via gli elementi in un processo di riduzione alla pura essenza dei suoi valori. E ciò incide non soltanto sul linguaggio e sulla scrittura quartettistica, ma anche sulle scelte timbriche e sulla architettura formale, nei singoli movimenti come nell'arco complessivo.

Il Primo Quartetto, iniziato nel 1908 e finito il 27 gennaio 1909 (op. 7), è da questo punto di vista un'opera programmatica. I tre tempi di cui si compone hanno caratteri diversi, che corrispondono a tre diversi momenti di un processo non solo di chiarificazione ma anche per così dire di liberazione.

Il primo (Lento) è a sua volta tripartito: al tessuto polifonico, contrappuntistico, disteso e insieme compatto della prima parte (che ritorna con carattere di maggior sospensione e attesa nella "ripresa") si contrappone nella sezione centrale un lirismo fortemente espressivo, appassionato, armonicamente assai ricercato e insistito; a metà strada fra l'astrazione dei movimenti lenti in minore degli ultimi Quartetti di Beethoven e l'ansia cromatica di Wagner.

L'Allegretto che segue ha la funzione di un Allegro di sonata, come se il primo tempo fosse stato solo un'introduzione; ma il suo carattere è quello di uno Scherzo con le movenze di un valzer, alquanto ironico nella presentazione del tema sull'ostinato del primo violino. La crescente animazione di questo movimento si modera a poco a poco fino a bloccarsi nel passaggio al terzo tempo (Introduzione: Allegro-Meno vivo Molto Adagio), da cui esplode il conclusivo Allegro vivace.

Esso è ispirato chiaramente al folclore ungherese, come è attestato dalla base pentatonica della struttura melodica e dalle figurazioni ritmiche insistite su suoni ribattuti, in una articolazione metrica che esce dagli schemi convenzionali delle unità di misura simmetriche. Ed è proprio la presenza di queste microstrutture melodiche e ritmiche a liberare una fortissima carica di energia, risolvendo la tensione dei movimenti precedenti, gravata di angoscia e di dubbi, in una gioiosa affermazione di slancio vitale, di segno autenticamente positivo.

Due aspetti di natura compositiva sono da sottolineare già in questo Primo Quartetto, giacché diventeranno quasi una costante nell'arte di Bartók: la tendenza alla forma ciclica, con nessi profondi anche se spesso piuttosto nascosti, e la predilezione per una sorta di concezione monotematica, estesa all'intera architettura formale; anch'essa sovente mascherata da una fitta rete di relazioni lontane, e intesa più come risultato di un'elaborazione compositiva (nel senso della predetta riduzione all'essenza degli elementi costitutivi) che come punto di partenza prefissato. In altri termini, Bartók giunge alla sintesi attraverso l'analisi, non a priori.

 

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